Nel mare di regolamenti comunali copia-incolla sulla videosorveglianza urbana, la privacy continua a essere il rifugio perfetto per chi preferisce cancellare invece di gestire.
In caso di incidente sotto il cono di una telecamera comunale, se il cittadino non formalizza immediatamente una richiesta di accesso, il filmato scompare. Non per scelta tecnica, ma per “compliance”. E così, dopo pochi giorni, anche la verità viene sovrascritta.
La vicenda che arriva da Bergamo è l’ennesimo esempio di come la videosorveglianza pubblica, pensata come strumento di sicurezza, finisca spesso prigioniera di una burocrazia che scambia la tutela dei dati per un pretesto per non decidere.
Un banale sinistro stradale – nessun ferito, solo due veicoli e un incrocio controllato da telecamere comunali – si è trasformato in una battaglia legale sul diritto di accesso ai filmati.
L’automobilista coinvolta aveva chiesto di poter visionare le registrazioni per dimostrare che l’altro conducente era passato con il rosso.
Il Comune di Bergamo, invece di verificare la richiesta, ha risposto mesi dopo che i filmati erano stati automaticamente cancellati dopo cinque giorni, “in applicazione del regolamento comunale”.
Il TAR Brescia prima (sent. n. 671/2024) e il Consiglio di Stato poi (sent. n. 8472 del 31 ottobre 2025) hanno dato ragione al Comune, ribadendo che l’amministrazione non è obbligata a conservare né a recuperare immagini non più esistenti.
Formalmente corretto. Operativamente disastroso.
Il regolamento comunale, che prevede un periodo massimo di conservazione di cinque giorni, è stato dichiarato conforme al principio di “limitazione della conservazione” del GDPR (art. 5) e all’art. 6 del D.L. 11/2009, che limita a sette giorni la conservazione per finalità di sicurezza urbana. Ma proprio qui sta il punto: quella norma non vale per tutte le finalità.
Quando la videosorveglianza serve a fini stradali, ambientali o di tutela del patrimonio pubblico, non esiste un limite legale rigido. E spetta al titolare del trattamento – cioè al Comune stesso – determinare tempi e modalità di conservazione coerenti con lo scopo perseguito.
E invece molti enti locali continuano a nascondersi dietro regolamenti standard, scritti anni fa, senza alcuna analisi di rischio né valutazione d’impatto aggiornata.
La conseguenza è che ogni giorno migliaia di ore di filmati potenzialmente utili all’accertamento di illeciti vengono cancellate per “prudenza”, con buona pace del diritto di difesa dei cittadini e dell’efficacia investigativa dei sistemi pubblici.
La Polizia locale viene così esclusa da ogni responsabilità, come ha chiarito il Consiglio di Stato. Non deve risolvere controversie tra privati e non ha l’obbligo di conservare dati oltre i termini fissati. Ma se le regole sono sbagliate, l’esecuzione pedissequa diventa un alibi.
La sentenza di Palazzo Spada fotografa perfettamente il paradosso italiano. Telecamere ovunque, ma filmati difficilmente recuperabili. Una conformità solo apparente, che tutela la burocrazia più della privacy reale.
Forse è arrivato il momento che i Comuni, come titolari del trattamento, si assumano la vera responsabilità.
Aggiornare i propri regolamenti, stabilire ruoli e responsabilità, differenziare i tempi di conservazione per finalità e introdurre procedure di freezing dei dati quando un evento viene segnalato.
Altrimenti continueremo a chiamarla “videosorveglianza urbana”, ma di urbano resterà solo il pretesto e di sorveglianza ne resterà poca.