Negli ultimi tempi si è parlato molto della decisione cinese di introdurre una sorta di “patentino” per influencer: un requisito di laurea o abilitazione per chi voglia trattare online temi come diritto, salute, educazione o finanza.
Una misura che molti osservatori occidentali hanno letto come l’ennesima forma di censura preventiva del pensiero digitale.
Si tratta di una regola che (sebbene rilanciata da alcune testa come “nuova”) risale al Codice di condotta per i conduttori online del 2022, con cui Pechino ha reso la “competenza certificata” una condizione di accesso alla parola.
Da noi, invece, la risposta alla disinformazione ha preso un’altra direzione della regolamentazione, anziché dell’autorizzazione.
Con il Codice di condotta AGCOM (Delibera 197/25/CONS), l’Italia ha scelto infatti la via della trasparenza e della responsabilità, provando a governare l’influenza senza imbavagliare chi la esercita.
Due modelli opposti di gestione della comunicazione digitale (la Cina che filtra, l’Italia che regola) accomunati, in fondo, dallo stesso obiettivo cioè quello digarantire la qualità delle informazioni in un ambiente che ha smarrito la fiducia nella parola.
In Cina, le restrizioni per influencer e conduttori online sono in vigore dal 2022, con l’adozione del Codice di condotta per i conduttori online emanato dalla National Radio and Television Administration (NRTA) e dalla Cyberspace Administration of China (CAC).
Il testo impone a chi trasmette o pubblica contenuti di mantenere un “corretto orientamento politico e morale”; possedere titoli o qualifiche professionali riconosciute dallo Stato per trattare temi come medicina, diritto, educazione e finanza; evitare linguaggio volgare, contenuti “emotivamente negativi” o ostentazione di ricchezza.
Le piattaforme (WeChat, Douyin, Weibo) sono responsabili della verifica delle credenziali e della sospensione degli account non conformi.
Se la ratio ufficiale è la “tutela della qualità e della moralità”, la conseguenza è un sistema che di fatto autorizza la parola in base all’appartenenza, in quanto chi non rientra nel circuito accademico o statale perde il diritto di parlare.
In questo senso, il “patentino per influencer” è il tassello di una più ampia “governance morale del cyberspazio”, iniziata con la Qinglang Campaign (“spazio pulito”), che ha progressivamente eliminato contenuti e profili considerati “ideologicamente dissonanti”. Questa terminologia, già di per sé, richiama il lessico delle purghe ideologiche più che quello della regolazione digitale.
L’Italia ha seguito una traiettoria opposta. Nel febbraio 2025, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha approvato la Delibera n. 197/25/CONS, che introduce il primo Codice di condotta per gli influencer in Europa.
L’obiettivo chiaro è quello di responsabilizzare senza censurare.
Il Codice prevede:
Non è richiesto alcun titolo accademico poiché l’AGCOM sanziona comportamenti scorretti, piuttosto che certificare competenze.
Il modello italiano, più vicino a un’idea di “etica professionale digitale”, punta su trasparenza e accountability, anziché (fortunatamente) sulla selezione ideologica.
In Cina la qualità è sinonimo di conformità, in Italia di correttezza.
Nel primo caso, la competenza è autorizzata; nel secondo, è autodichiarata e vigilata.
| Aspetto | Cina (Codice 2022) | Italia (AGCOM 2025) |
| Autorità | NRTA e CAC | AGCOM |
| Finalità dichiarata | Tutela della moralità e della qualità dei contenuti | Trasparenza e correttezza comunicativa |
| Tipo di controllo | Preventivo, politico | Successivo, informativo |
| Requisiti | Titoli di studio riconosciuti dallo Stato | Nessun titolo richiesto |
| Effetto reale | Selezione delle voci legittimate | Responsabilizzazione del contenuto |
Il limite cinese è evidente: il controllo preventivo produce un discorso sterilizzato, dove la “lotta alla disinformazione” coincide con la selezione politica delle voci, oscurando le posizioni indipendenti e non conformi, prive di titoli accademici rilasciati dallo Stato.
Il limite italiano, più sottile, è l’inefficacia strutturale: la trasparenza formale non migliora necessariamente la qualità sostanziale dei contenuti.
Un contenuto etichettato come #adv o pubblicato da un influencer registrato può essere formalmente conforme ma epistemicamente povero, distorto, populista.
In entrambi i casi, la qualità informativa rimane una promessa non mantenuta.
L’uso politico o ironico della “competenza” è un terreno comune ai due contesti.
In Cina, la laurea è un marchio statale di legittimità; in Italia, per molti influencer, un simbolo di élitismo inutile.
Emblematico il caso di Michelle Comi, ospite de La Zanzara (Radio 24, 2024), che ha sostenuto provocatoriamente che “una bella ragazza non ha bisogno di studiare”.
Due estremi opposti che si toccano: da una parte, la conoscenza come criterio di esclusione; dall’altra, l’ignoranza come bandiera di autenticità. In entrambi i casi, la competenza perde valore come categoria democratica.
Sia la Cina che l’Italia affrontano lo stesso problema da angolature opposte: l’inquinamento informativo.
La prima tenta di bonificare la rete eliminando le voci, mentre la seconda prova a civilizzarla tramite norme di trasparenza. Tuttavia, nessuna delle due riesce a garantire la qualità effettiva del sapere circolante.
La conseguenza è sistemica se si pensa che i modelli linguistici di intelligenza artificiale (LLM) si nutrono degli stessi contenuti che inquinano il web. Se il corpus di addestramento è costruito su informazioni parziali, distorte, manipolate o ideologiche, anche le macchine replicheranno l’errore, con l’aggravante che lo faranno con un’autorevolezza maggiore.
L’AI, in questo senso, diventa la cartina di tornasole della fragilità cognitiva dell’ecosistema digitale.
Né la sola trasparenza né (tantomeno) la censura sono soluzioni sufficienti, in quanto serve un approccio integrato, capace di conciliare libertà, verificabilità e qualità.
Alcune possibili linee d’azione:
L’obiettivo dovrebbe essere quello di garantire che ciò che viene detto sia attendibile, per noi e per le macchine, senza che a nessuno sia impedito di parlare.
Il Codice cinese del 2022 e il Codice AGCOM del 2025 incarnano due logiche opposte:
Resta il fatto che nessuna delle due, da sola, riesce ad assicurare la verità.
La libertà d’espressione non basta se l’ambiente informativo resta tossico e la censura non funziona se la verità è imposta.
Il futuro della libertà digitale si basa ormai sulla credibilità e attendibilità di ciò che si dice e su come anche le macchine imparano a distinguerlo.