Come l’Unione europea sta per cambiare gli iPhone
2024-3-4 17:1:28 Author: www.guerredirete.it(查看原文) 阅读量:14 收藏

Uno degli effetti più clamorosi del Digital Markets Act (Dma), il regolamento europeo che mira a rendere più equo e competitivo il mercato digitale e che entra in vigore a marzo, riguarda una delle più grandi aziende tecnologiche al mondo: Apple. L’impatto sulla multinazionale con sede a Cupertino è infatti particolare e ha avuto una certa risonanza vista la costante attenzione del pubblico e dei media nei confronti del produttore di iPhone.

La normativa europea ha costretto Apple a preparare un’opzione alternativa al suo “App Store” (l’unico modo con cui fino a oggi è stato possibile installare delle app di terze parti negli smartphone e nei tablet di Apple) per consentire agli sviluppatori di offrire una scelta differente. La scelta alternativa si è tradotta, in pratica, nella preparazione di un aggiornamento per il sistema operativo degli iPhone (iOS 17.4) che verrà rilasciato a marzo e che nelle versioni per i soli paesi dell’Unione europea consentirà il cosiddetto “sideloading”, cioè l’installazione di app al di fuori dello store ufficiale (oltre al contestuale abbandono delle progressive web app, un tipo di web app che può operare come pagina web e come app per mobile, per gli utenti iPhone dell’Unione europea). La notizia del sideloading è rilevante per vari motivi, a partire dal fatto che in Europa si stima che siano presenti più di 100 milioni di utenti iPhone. Sino a ora sull’App Store di iOS, iPadOS, watchOS e macOS, Apple ha applicato una commissione di vendita del 30% per le app e gli acquisti in-app (la commissione non si applica alle app gratuite). Dal canto loro, gli abbonamenti prevedono una commissione del 30% per il primo anno, che scende al 15% per gli anni successivi.

La dimensione del problema

Apple è un colosso con una capitalizzazione di mercato di poco inferiore ai tremila miliardi di dollari, un fatturato annuo nel 2023 di 383,3 miliardi di dollari con un margine lordo del 44,1% e un margine operativo del 29,8%. Soprattutto, l’azienda ha una quota di mercato mondiale degli smartphone stimata di circa il 18% con circa 1,2 miliardi di telefoni attivi su 2,3 miliardi di apparecchi venduti dal lancio nel 2007. L’iPhone è effettivamente non solo il prodotto di punta di Apple (pari a circa la metà del suo fatturato) ma anche il singolo smartphone più venduto al mondo. Per questo gli effetti della normativa europea hanno un impatto significativo non solo sull’azienda ma in prospettiva anche sui mercati di tutto il pianeta.

E l’effetto è stato riassunto in una delle rare interviste rilasciate dall’ex responsabile del marketing internazionale di Apple, Phil Schiller, oggi “Apple Fellow” con la responsabilità di guidare l’App Store e la divisione degli eventi di Apple. Schiller ha dichiarato a Fast Company che “queste nuove normative, nonostante portino nuove opzioni per gli sviluppatori, comportano anche nuovi rischi. Non c’è modo di evitarlo. Quindi, stiamo facendo tutto il possibile per minimizzare questi rischi per tutti”.

Il sideloading e gli eventuali rischi 

L’apertura degli iPhone agli app store di terze parti porta a una maggiore scelta per gli utenti (cioè anche app oggi non disponibili sull’App Store o vietate dai regolamenti di Apple). Ma secondo Apple c’è anche un rischio legato alla minore sicurezza, cioè un rischio di malware e virus nonché di app che violano la privacy degli utenti. A ottobre del 2021 Apple ha pubblicato una lunga ricerca (pdf) nella quale descrive quali sarebbero i rischi legati all’apertura degli iPhone: “Il supporto del side-loading attraverso il download diretto e i negozi di app di terze parti indebolirebbe le protezioni per la privacy e la sicurezza che hanno reso l’iPhone così sicuro ed esporrebbe gli utenti a gravi rischi per la sicurezza”.

Il sideloading di app è già possibile su Android (anche se poco praticato, e con misure sempre più restrittive messe in piedi da Google). Inoltre, come anticipato da Schiller, Apple ha introdotto anche alcune misure di sicurezza per il sideloading, come la verifica dell’identità degli sviluppatori e la scansione delle app per malware. Infine, chi decide di installare app caricate da store di terze parti, dice Apple, lo farà a suo rischio e pericolo, perché l’azienda non si prende alcuna responsabilità degli eventuali danni.

Ma è ancora più interessante vedere cosa comporta l’apertura di store di terze parti in Europa dal punto di vista degli sviluppatori e degli utenti. Per i grandi sviluppatori del settore l’opportunità potrebbe in teoria aprire a sviluppi molto interessanti: Meta, Spotify e altre aziende stanno preparando opzioni di download alternative per i propri utenti. Meta ha iniziato a valutare un sistema che consentirebbe agli utenti di scaricare app direttamente dagli annunci di Facebook. Spotify ha in programma di offrire la possibilità di scaricare alcune delle sue app per iPhone direttamente dal proprio sito web. Microsoft ha già valutato il lancio di un proprio app store di terze parti per i giochi su iOS.

Dal punto di vista degli utenti, il sideloading può portare altri vantaggi. Oltre al diritto di fare quel che vogliono dei dispositivi che hanno acquistato (ma i critici, ad esempio in questo post su Reddit, ritengono che Apple in realtà non abbia reso veramente “liberi” i suoi dispositivi), ci sono opportunità in termini di accesso ad app non disponibili sullo store ufficiale, che consentano maggiore flessibilità di uso e personalizzazione (anche di installare gratuitamente app che nello store sono a pagamento).    

Le regole del gioco (di Apple)

La doccia fredda però è arrivata quando Apple ha spiegato come interpreta la normativa per riuscire a mantenere il controllo sulle app scaricate al di fuori dell’App Store. L’azienda ha infatti deciso che si riserva la possibilità di revisionare ogni app scaricata al di fuori del suo App Store e riscuotere comunque delle commissioni dagli sviluppatori che offrono download al di fuori dell’App Store. Oltre a questo, intende attivare una tassa piuttosto consistente (chiamata “Core Technology Fee”, tassa sulla tecnologia di base), dalla quale però sono esentati alcuni tipi di organizzazioni.

In particolare, comunica Apple: “Le organizzazioni non profit, gli istituti scolastici accreditati e gli enti governativi che sono approvati per l’esenzione dalla tassa nello store di Apple sono esenti dalla tassa sulla tecnologia di base, soggetta alle regole esistenti dell’Apple Developer Program. Gli sviluppatori degli app store alternativi pagheranno la tassa sulla tecnologia di base per ogni prima installazione annuale del loro app store, incluse le installazioni che si verificano prima della soglia di un milione”.

Tra i critici del modo con il quale Apple ha inteso aderire al Dma c’è Mark Zuckerberg, che durante la presentazione dei risultati dell’ultima trimestrale della sua azienda, ha osservato come le condizioni di Apple siano così onerose che difficilmente gli sviluppatori vorranno aderire. Tuttavia, la strategia di Apple non ha evidentemente l’obiettivo di far felice Zuckerberg o gli altri sviluppatori, quanto di evitare le sanzioni dell’Ue previste per le violazioni del Dma: fino al 10% del fatturato dell’azienda per chi non abbia commesso altre precedenti violazioni o fino al 20% del fatturato dell’azienda in caso di recidiva. Il fatto che Apple agisca sulla spinta delle possibili sanzioni non è necessariamente un male, visto che in effetti la normativa Europea ha una ratio e una storia molto articolate.

Come nasce il Dma

Infatti le istituzioni europee da tempo avvertono la pressione esercitata dalle grandi aziende prevalentemente americane nell’ambito della tecnologia e hanno cercato dei modi per contenerla o addirittura rinviarla al mittente. Questo in un contesto in cui l’Europa è molto limitata sui fondamentali per competere o quantomeno contenere l’innovazione proveniente da altri mercati nel settore strategico del digitale.

All’Europa mancano infatti i volumi e la capacità industriale per competere dal punto di vista della produzione dei componenti-chiave per il settore hi-tech, cioè microprocessori e memorie, che sono invece concentrati negli Usa e a Taiwan, oltre che in Cina, Giappone e Corea del Sud. Gli investimenti per la realizzazione di “fonderie di silicio”, i costosissimi stabilimenti in cui si producono wafer, si assemblano i chip e si testano funzionalmente, sono limitati e comunque in parte rivolti a facilitare aziende straniere come l’americana Intel o la taiwanese Tsmc (ne abbiamo scritto in quest’articolo).

Mancano anche i talenti, che nascono in maggior numero prevalentemente nelle università statunitensi e comunque vengono attratti dalle opportunità offerte dalla concentrazione di aziende presenti nella Silicon Valley. Secondo il QS World University Rankings by Subject del 2023,per il settore della scienza informatica, le prime quattro università sono tutte americane, seguite da una britannica (quindi al di fuori del perimetro dell’Unione europea), una di Singapore e poi, dopo un’altra statunitense e una britannica, entrano in classifica due università svizzere (anche queste fuori dal perimetro della Ue). Ha un andamento molto simile anche la classifica per le università nel settore dell’ingegneria elettronica.

Mancano infine i capitali di ventura, che sono prevalentemente nordamericani (gestiti da investitori come Sequoia Capital, SV Angel, Accel, a16z) con le eccezioni dei fondi sovrani asiatici e mediorientali e dei grandi fondi asiatici come il giapponese SoftBank con Vision Fund. In Europa spiccano per dimensioni i venture capital tedeschi Pont Nine, Global Founders Capital e HV Capital, seguiti dal francese Kima Ventures e Partech, più lo svedese Creandum.

La strategia di Bruxelles

La risposta europea si articola attorno all’ambito nel quale l’Unione è più forte: le normative di principio e le regolamentazioni di dettaglio. Anche se può sembrare un eccesso di burocratizzazione (e dal punto di vista dei media statunitensi è sicuramente così, come hanno dimostrato ad esempio i commenti dei giornali americani all’obbligo di utilizzare lo standard Usb-C per i caricabatterie dei telefoni cellulari), in realtà l’intenzione delle istituzioni europee è quella più che comprensibile di governare al meglio la sfera in cui vivono i suoi cittadini mantenendo gli orientamenti di principio che caratterizzano l’Unione.

Per questo la normativa europea non solo è coerente, ma è uno strumento che Bruxelles pone sullo stesso piano concettuale delle altre leve per la competizione nelle quali invece ha una minore capacità di agenzia. Infatti, il motivo per cui il Digital Markets Act richieda alle aziende con più di 45 milioni di utenti attivi mensili e una capitalizzazione di mercato di 75 miliardi di euro (82 miliardi di dollari) di rendere, tra le altre cose, le proprie app compatibili con quelle dei rivali e di permettere agli utenti di decidere quali app preinstallare sui propri dispositivi, è sostanzialmente per limitare il rischio che i “grandi” della tecnologia possano distorcere di fatto la competizione creando delle zone in cui tolgono ossigeno ai possibili concorrenti. 

Dma e Dsa

Questo si può dedurre andando a leggere le normative e rendendosi conto che in realtà i regolamenti varati da Bruxelles coprono un ambito molto più ampio di quanto solitamente non si pensi. La legislazione sui mercati digitali e la normativa “sorella” del Digital Services Act (Dsa) compongono insieme due pilastri per un mercato digitale che, nelle intenzioni dell’Ue, deve essere più sicuro, equo e competitivo.

Il Dma ha come obiettivo esplicito quello di contrastare il potere dominante delle grandi piattaforme digitali (i cosiddetti “gatekeeper”) e promuovere la concorrenza nel mercato digitale. I “gatekeeper” sono i “grandi” della tecnologia. Un passaggio rilevante del Dma è la definizione di “grande”, cioè la dimensione quantitativa: 45 milioni di utenti attivi mensili e una capitalizzazione di mercato di 75 miliardi di euro. Stabilire una metrica precisa, che oltretutto è decisamente elevata per la maggior parte delle imprese europee, lascia spazio all’innovazione nei nuovi settori, protegge le aree economicamente più deboli e al tempo stesso tutela, nelle intenzioni della Commissione, i cittadini europei rispetto al peso economico dei big del tech. Sin da subito hanno ammesso di superare la soglia, che scatterà il 6 marzo, Alphabet (cioè Google), Amazon, Apple, ByteDance (cioè TikTok), Meta, Microsoft e infine Samsung, che poi è stata però esclusa.

E le azioni messe in atto sono l’imposizione di alcuni obblighi, come l’interoperabilità con i servizi concorrenti, l’accesso ai dati e la parità di trattamento per le aziende e gli utenti. Quello che il Dma vuole vietare sono alcune pratiche sleali, come l’autoreferenziazione dei propri prodotti e servizi da parte dei “gatekeeper”.

Simmetricamente, il Dsa si concentra invece sulla sicurezza e la responsabilità delle piattaforme online e lo fa con l’obiettivo di creare un ambiente online più sicuro e responsabile per gli utenti europei, contrastando la disinformazione, l’hate speech e i contenuti illegali. L’ambito nel quale impattano le due norme è diverso, perché il Dsa si applica in generale a tutti i servizi online che forniscono un intermediazione tra utenti, come i social network, i motori di ricerca, gli e-commerce e i marketplace digitali.

È per questo motivo che il primo impatto con una certa risonanza mediatica del Dma, cioè la decisione di Apple di aprire la sua piattaforma al sideloading, è un indicatore di una strategia molto più ampia e ambiziosa da parte dell’Unione europea. Bruxelles intende sfruttare l’unica leva che ha a disposizione, cioè quella dei principi e normativa, per riaprire la competizione con i colossi americani e gli attori asiatici su un piano di parità e tutela dei suoi cittadini almeno dal punto di vista dei mercati.


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